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Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte (1)
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Rompere l’indifferenza: il 2025 di Cittadellarte secondo Paolo Naldini

Un dialogo di fine anno con il direttore di Cittadellarte sulla trasformazione sociale responsabile in un tempo segnato da guerre, indifferenza e stanchezza collettiva. Tra scuola, demopraxia, emozioni, arte pubblica e impegno globale, Paolo Naldini riflette sul ruolo dell’arte nel riattivare sensibilità, responsabilità ed empatia, senza smettere di cercare.

La fine di un anno non è mai soltanto una questione di calendario. È una soglia. Un punto in cui il tempo rallenta, si ripiega su se stesso e chiede di essere guardato. Il 2025 si chiude in un clima che ha poco a che fare con l’idea di transizione che ci ha accompagnati negli ultimi anni: il lessico del cambiamento sembra essersi logorato, mentre troneggiano - socialmente e mediaticamente - parole come guerra, potere, confine, indifferenza.
In questo scenario, l’
arte rischia di apparire marginale, persino superflua. Eppure è proprio nei momenti di maggiore "stanchezza" collettiva che diventa urgente interrogarsi sul suo ruolo: non come decorazione del presente, ma come pratica capace di incidere, disturbare la standardizzazione del pensiero, riattivare sensibilità e responsabilità.
Come ogni fine anno, sul nostro Journal affidiamo questa riflessione a tutto tondo a
Paolo Naldini, direttore della Fondazione Pistoletto. Un dialogo che non è mero bilancio, non è celebrazione, ma esercizio di ricerca. È un guardarsi allo specchio. Dalla dimensione locale a quella globale, dalla scuola come spazio radicale di formazione fino al tema delle emozioni e dell’indifferenza di fronte al dolore del prossimo, l’intervista attraversa i nodi più urgenti del nostro tempo. Non per trovare risposte definitive, ma per continuare a cercare. Anche quando il mondo sembra aver smesso di farlo.

Il 2025 si chiude come un anno in cui la parola “transizione” sembra aver perso forza, sostituita da un senso diffuso di stanchezza e di ritorno a logiche di potere, guerra e chiusura. In questo contesto, ha ancora senso parlare di trasformazione sociale responsabile o occorre cambiare il lessico e ripensare le pratiche?
La deriva populista, autoritaria e antidemocratica che quest'anno si è ulteriormente aggravata e conclamata rafforza le motivazioni che ci hanno portati alla costituzione dello Statodellarte demopratico come più avanzato programma di impegno dell'arte nella società. La trasformazione è clamorosamente in atto, purtroppo verso modelli di convivenza sempre più ingiusti e distruttivi. Dunque, l'attributo di "responsabile" diventa ancora più significativo, direi la chiave di volta da applicare in ogni contesto.

Anche quest'anno, Cittadellarte ha operato sul piano locale e globale: dalla Cina all’Europa di confine, dal Mediterraneo all’Est asiatico. Portare un’installazione o un'opera demopratica in luoghi carichi di storia, conflitto o simbolismo espone l’arte a letture imprevedibili. Quanto è importante, per la Fondazione, accettare questo rischio?
Non solo è inevitabile, ma è programmato. L'incontro con i contesti è sempre un'operazione non controllabile al 100% e anzi costituisce co-creazione. In alcuni casi gli esiti possono essere fortemente problematici come per esempio con l'incendio della "Venere degli stracci" a Napoli. In altri casi, assai più frequenti, la sorpresa è per esiti generativi di progetti, processi, realtà, esperienze non previste, ma molto ben accette. L'opera "opera", cioè esercita un'azione proprio in quanto opera d'arte riuscita. L'opera che Cittadellarte realizza e trasmette ai nostri allievi consegue questa attività non in solitudine, ma appunto nella co-creazione con gli abitanti che la invitano, accolgono e sviluppano.

Negli anni hai ribadito che Cittadellarte è, radicalmente, una scuola. Nel 2025, cosa significa educare alla responsabilità in un mondo in cui algoritmi, intelligenza artificiale e automazione sembrano sottrarre sempre più spazio all’azione umana consapevole e, in questo senso, all'autorialità?
Dobbiamo procedere nel continuo viaggio dalla società degli automi alla società degli autori. Gli automi sono forme di vita senza consapevolezza e capacità decisionale. La natura ha generato automi, ma ha anche instillato negli animali forme e gradi di consapevolezza che hanno aperto la strada all'autore in noi. Gli umani hanno espresso al massimo grado il potenziale di auto-determinazione conquistando gli spazi dell'automatizzazione naturale. In questa tensione, sta quell'equilibrio dinamico tra opposti (automa-autore), che ancora una volta, verifica la Formula della creazione. Le sfide dell'intelligenza artificiale pongono questa questione in maniera ancora più bruciante. Anche a questo proposito, sono convito che coltivare il muscolo della creazione sia l'antidoto migliore alla eventualità da scongiurare di concedere eccessivo spazio all'automazione, così come all'intelligenza artificiale. Come giustamente dicevi, la scuola che sviluppiamo a Cittadellarte si basa su questa visione, quella dell'arte al centro di ogni attività umana, un'arte intesa come massima espressione della dimensione autoriale, che si tratti di bambini dell'Open School del Terzo Paradiso, come degli allievi dell'Accademia Unidee, dei residenti di UNIDEE Residency Programs, dei partecipanti alle Terme Culturali o componenti dei tavoli di lavoro dei cantieri demopratici a Biella e nel resto del mondo e, invero, di ogni persona o gruppo che entri a partecipare di Cittadellarte come individuo o gruppo.

Paolo, hai sempre rimarcato l'importanza di imparare cose nuove, nella vita professionale così come in quella personale. Ribaltiamo la prospettiva: dopo oltre vent’anni di vita e lavoro a Cittadellarte, cosa senti di aver disimparato? C’è una convinzione che oggi lasceresti andare rispetto al passato?
Mi sono ricreduto sul potenziale delle manifestazioni di piazza con fini politici. Ero giunto a pensare che queste non solo non avessero utilità, ma anzi rischiassero, come nel caso della Primavera araba, di portare conseguenze negative per gli stessi organizzatori. Oggi credo invece che la presenza performativa dei corpi che occupano spazi della città possa essere parte efficace di una partecipazione civica virtuosa. In particolare, le interpreto come il momento dell'espressione, dei sentimenti che le persone provano. Vedo un circuito sano, operato dalla circolazione di idee e sentimenti nella popolazione, che giungono a rendersi visibili, manifesti, non solo alla popolazione stessa, ma, in modo significativo, ai rappresentanti politici. La stessa funzione della rappresentanza viene dunque aggiornata dalle manifestazioni che la popolazione vorrà esprimere, offrendo agli stessi rappresentanti la possibilità di meglio orientare la propria funzione.

Proviamo a considerare Cittadellarte un organismo vivente. Quale parte senti oggi più fragile? E quale invece più matura di quanto avresti immaginato?
La parte più fragile rimane il sistema circolatorio, cioè i flussi di alimento dell'intero organismo, quindi l'economia. C'è un grande cuore che batte con forza, ma abbiamo bisogno di un sistema circolatorio più solido. Invece le mani sono l'organo che più mi ha colpito, per forza e maturità: sono quella parte del corpo con cui agiamo sull'ambiente apportando la nostra creatività. In questo senso, ho visto i nostri amici e collaboratori crescere e sviluppare capacità davvero straordinarie di incidere realizzando il nostro programma.

Quest'anno hai pubblicato il tuo primo romanzo, Good Morning, Palestine, che vede il protagonista travolto da una crisi morale data dall’impotenza provata per il genocidio - come tu lo definisci - a Gaza e in Cisgiordania. Ciò che prova è purtroppo un sentimento di stringente attualità: viviamo in un tempo in cui siamo esposti quotidianamente a immagini di dolore estremo, eppure spesso rimaniamo immobili. Che tipo di emozione è l’indifferenza? Se quest'ultima fosse un’opera d’arte, la distruggeresti come una rottura dello specchio di Pistoletto?
L'indifferenza mi pare un'incapacità di un'opera d'arte. E sì, mi piacerebbe romperla, però, a differenza dello specchio che rompendosi genera infinite parti specchianti, tanto specchianti quanto l'intero specchio di partenza, vorrei che rompendo l'indifferenza si generassero sensibilità e responsabilità.

Nel racconto dominante e mediatico dei conflitti, spesso i numeri sostituiscono i volti. Che responsabilità ha l’arte nel restituire umanità dove il linguaggio politico la cancella? L’arte può riattivare l’empatia senza cadere nella spettacolarizzazione del dolore? Teniamo anche conto che la parola dell'anno 2025, secondo l'Oxford Dictionary, è "Rage Bait", che indica i contenuti creati per provocare rabbia e indignazione, in particolare sui social media. 
Sono convinto, come molti tra cui Martha Nussbaum (vedi la sua opera "Not for profit"), che l'arte abbia la funzione di permetterci di immedesimarci nelle storie degli altri, e dunque di generare empatia, che rappresenta il cemento vivo della struttura sociale. Il confine tra arte e spettacolarizzazione mi pare sempre tanto difficile da definire quanto immediato da percepire. E condivido la preoccupazione dell'Oxford Dictionary per la diffusione della cultura dell'odio, ma penso che per contrastarla non sia appropriato prosciugare dalle emozioni la sfera pubblica, quanto invece animarla di sentimenti opposti come lo spirito di fratellanza, la compassione, il cosmopolitismo e la giustizia.

Quando spegni le luci del tuo ufficio, quale emozione resta accesa?
Anche oggi non ho raggiunto il fine ultimo della mia ricerca e della mia attività, ma mi è piaciuto cercarlo. E non è finita qui.


Immagine di copertina: fotogramma di un video realizzato da Hossam Ezzat (crediti Istituto Italiano di Cultura del Cairo) che vede Paolo Naldini in Egitto spiegare il significato dell'installazione del Terzo Paradiso sull’altopiano di Giza. L'opera è stata proposta per la quinta edizione di Forever Is Now, la mostra a cielo aperto, promossa da Art D’Égypte by Culturvator, in cui l’arte contemporanea incontra l’eredità millenaria dell’antico Egitto.
Pubblicazione
23.12.25
Scritto da
Luca Deias